✍️ Portnoy e quella voce che non tace mai

Portnoy Philip Roth


C’è un libro che ogni volta che lo riapro mi dice:

«Stai zitto tu, che adesso parlo io.»


È Portnoy, di Philip Roth.

Una volta si chiamava Il lamento di Portnoy. Ora hanno tolto il “lamento”, ma tanto c’è ancora tutto. E che lamento.


Un monologo.

Tutto un lungo monologo.

Un uomo sul lettino dell’analista che parla, e parla, e parla.

Eppure, mentre parla lui, ti sembra di sentire parlare anche la madre, il padre, le donne, l’America, l’ebraismo, la psicanalisi, il sesso, la colpa, l’ironia.

Una sola voce, che si fa mondo.


E allora ti viene da chiederti: ma serve davvero avere tanti personaggi?

O basta una voce che sappia essere tante?


Philip Roth non ti dà risposte.

Ti lascia lì, con un flusso di parole che non chiede permesso.

Non si preoccupa di piacere.

È volgare, è feroce, è tragico, è spudorato, è ridicolo.

È vero.


E da scrittore, ti viene voglia di prendere appunti.

Perché Portnoy non è solo un romanzo.

È una lezione (non detta) su come si può scrivere quando si smette di trattenersi.

Quando lasci che la voce venga fuori tutta, con la sua coda e i suoi denti.


È come se Roth ti dicesse:

“Non pensare alla bella pagina.

Pensa alla voce.

Quella che ti rode dentro.

Quella che ti viene da scrivere quando non te lo permetti.”


Quindi se stai scrivendo, o se vuoi iniziare a farlo, ascolta quella voce lì.

Quella che parla senza filtro.

Quella che non vuole insegnare niente.

Quella che vuole solo essere ascoltata.


Come Portnoy sul lettino.

Che forse non guarisce, ma almeno si è raccontato.

E noi, in fondo, è questo che facciamo:

ci raccontiamo per non esplodere.

Per non mentirci.

Per non sparire.


🌀 Portnoy è un libro che non ti insegna a scrivere.

Ti costringe a farlo.

A voce alta.

E senza vergogna.


Portnoy Philip Roth 




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