✍️ Perché tifiamo sempre per i più sfigati
(e ci piace che finisca bene)
C’è qualcosa di profondo — e anche di tenero — nel nostro amore per i protagonisti sfortunati.
Quelli che cominciano male. Che perdono subito. Che non hanno genitori, né soldi, né fortuna.
Eppure, pagina dopo pagina, riescono a rialzarsi. E noi, come lettori, siamo lì: a fare il tifo.
Aristotele, già nella Poetica, lo aveva capito benissimo.
Dice che a commuoverci davvero non è chi è buono e viene premiato, o chi è cattivo e viene punito.
Ma chi cade senza meritarselo, chi sbaglia per errore, chi si ritrova nel fango con tutta la sua umanità addosso.
“Il migliore tipo di tragedia rappresenta un uomo non del tutto virtuoso e giusto che cade nella disgrazia non per malvagità o depravazione, ma a causa di un errore.”
Aristotele, Poetica, cap. XIII
Quello è il momento in cui ci emozioniamo.
Perché capiamo che poteva capitare anche a noi.
Chi è l’underdog?
È il personaggio che parte in svantaggio.
Che ha tutto contro, ma non si arrende.
Non è il più forte, né il più intelligente, né il più amato.
Ma è quello con più fame di riscatto.
Robert McKee, nel suo Story, lo spiega così:
“Un personaggio può essere emotivamente coinvolgente solo se i suoi antagonisti sono forti, feroci, credibili. L’eroe è tanto più potente quanto più grandi sono le forze che gli si oppongono.”
Ecco perché ci affezioniamo:
non perché è perfetto, ma perché lotta.
E spesso lo fa da solo, con i nervi scoperti e i sogni mezzi rotti.
Perché amiamo queste storie
Forse perché ci somigliano.
Perché anche noi ci sentiamo spesso inadeguati, confusi, con le tasche bucate e i sogni stropicciati.
E allora vedere qualcuno che parte dal fondo e arriva da qualche parte — anche solo a capire chi è — ci consola.
Ci fa sentire meno soli.
Non è un lieto fine a tutti i costi.
È un lieto fine guadagnato.
E quella differenza si sente.
Una piccola verità per chi scrive
Ogni scrittore, prima o poi, pensa di inventare qualcosa di nuovo.
Poi scopre che è da duemila anni che ci commuoviamo per le stesse storie:
quella dell’orfano, del povero, del cuore spezzato, dello sfigato che alla fine ce la fa.
Forse la vera rivoluzione non è scrivere qualcosa di diverso,
ma scrivere quel dolore antico con parole nuove, vere, vive.
Quelle che sanno ancora farci tremare, sperare, respirare. Da sempre.
E tu? Hai mai tifato per qualcuno che partiva malissimo?
Raccontalo nei commenti.
O scrivilo per te.
Perché certe storie non cambiano.
Ma ogni volta che le raccontiamo con cuore, cambiamo un po’ anche noi.
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